L’orizzonte a portata di sguardo, soffocante anziché liberatorio, perché irraggiungibile. Non riescono mai a mettersi realmente in movimento, girando in tondo in una dinamica di alleanza o vendetta, i personaggi di Non sono quel che sono, adattamento dell’Otello di Shakespeare. Edoardo Leo porta a compimento un progetto rimasto in cantiere per molti anni, in cui utilizza il dialetto, per lo più romanesco, ma non solo, per riproporre il più fedelmente possibile non solo il testo, adattato molto fedelmente, ma anche l’anima popolare originaria del Bardo. La tensione di piccole gang di criminali, la strada con le sue regole implacabili per superare decenni di intellettualizzazione dell’Otello, come di altre opere di Shakespeare, ridotte a messe in luoghi sacri. Una profanazione che sa di recupero della potenza originale di una storia che non ha perso un grammo della sua portata di campanello d’allarme morale, troppo spesso tristemente ignorato. Possibile che i rapporti fra i sessi non siano cambiati poi così in meglio in 400 anni? Possibile che la gelosia possa essere interpretata ancora oggi, anche nella sua forma più estrema di ossessione, con una certa condiscendenza, quasi fosse una sfumatura, sì un po’ eccessiva, ma in fondo comprensibile, dello spettro romantico?
Vedere oggi Non sono quello che sono – titolo che rilancia una frase celebre della tragedia che sottolinea l’ambiguità dei protagonisti – vuol dire sovrapporgli inevitabilmente la cronaca quotidiana. Per un uomo, aumentare la dose di autoanalisi, scavando nella coscienza e nel raccapriccio di secoli di abuso mal celato. Un femminicidio, come giustamente lo definisce Edoardo Leo, è al centro dell’Otello, e nient’altro. Un adattamento che cancella per la prima volta la parola gelosia, con secoli di interpretazione attenuata, da un’opera che vista oggi risulta ancora più violenta e dolorosa. Il senso di claustrofobia che trasmette, nonostante quel mare quasi sempre sullo sfondo, è rappresentato con crescente precisione dal film, da personaggi rinchiusi in sé stessi, in una notte sempre più lunga, alternata a giornate senza alba e oltre il tramonto.
Il disagio di un immobilismo che perde ogni speranza è alimentato dalle scelte di messa in scena di Leo, che fa emergere con chiarezza la portata diabolica di Iago. Un personaggio così prossimo alle debolezze umane da essere troppo facilmente vilipeso o liquidato come puro cattivo, una sorta di anticipatore del cattivo della narrativa e del cinema popolare.
Nelle piccole vittorie di battaglia della sua lingua biforcuta e falsa risiede la frustrazione molto attuale, ma direi connaturata nella natura della nostra specie, le piccole rivalse, le invidie mai sopite, la miopia di chi si rifugia nella sopravvivenza, senza l’ambizione e il coraggio per alzare gli occhi e pensare al lungo periodo. Come nella favola della rana e dello scorpione, innescando una reazione a catena destinata inevitabilmente a ritorcersi anche contro il mandante.
Mauro Donzelli